Il training autogeno, il metodo ideato dal Dott. J.H. Schultz nella prima metà del secolo scorso, trae le sue origini dal grande interesse dei ricercatori dell’epoca nei confronti dell’ipnosi e delle sue potenzialità in ambito terapeutico. In quel periodo, per la prima volta nella storia, l’ipnosi era diventata oggetto e strumento di studio con metodo scientifico e suscitava grande entusiasmo in ambito medico e psicologico.

Nella prima pagina della sua opera più importante sul training autogeno, il Dott. J.H. Schultz scrive: “il principio fondamentale del metodo consiste nel determinare, per mezzo di particolari esercizi fisiologico-razionali, una deconnessione globale dell’organismo che, in analogia con le metodologie eteroipnotiche, permette di raggiungere le realizzazioni proprie degli stati suggestivi”. In altre parole, per l’Autore l’obiettivo del training autogeno è quello di permettere di raggiungere stati simili a quelli raggiungibili attraverso una comune induzione ipnotica – ossia uno stato di trance – per conto proprio e senza la necessaria presenza di un ipnoterapeuta.

In linea con questo obiettivo, l’attenzione e le ricerche di Schultz vennero naturalmente attratte dagli studi di Oskar Vogt, con il quale collaborò e dal quale fu profondamente influenzato. Vogt evidenziava come persone “di una certa cultura e di buone capacità di critica fossero in grado di determinare la deconnessione propria dello stato ipnotico su se stesse e da sole, realizzando così uno stato di autoipnosi”. Questa possibilità assumeva una certa rilevanza in quanto andava emergendo la consapevolezza di come l’essere in grado di porsi in uno stato di autoipnosi, oltre a migliorare le proprie capacità di auto-osservazione, permettesse il realizzarsi di una condizione di distensione, di calma e di recupero tali per cui, anche trovandosi in situazioni critiche dal punto di vista fisico o mentale, rimaneva comunque possibile evitare che le eccitazioni raggiungessero livelli tali da diventare dannose.

Nella sua ricerca, preliminare alla stesura del suo metodo, Schultz studiò un gran numero di auto-osservazioni di persone che, avendo sperimentato lo stato di ipnosi, ne avevano rendicontato l’esperienza. Il fine era quello di cogliere, al di là delle peculiarità del vissuto personale e soggettivo di ciascuno, l’esistenza di fattori aspecifici riconducibili allo stato di trance. Dalla sua analisi emerse come, oltre al generico vissuto di distensione, di calma e benessere, nella maggior parte dei casi da lui studiati si manifestassero due particolari sensazioni somatiche: una sensazione di pesantezza generalizzata a tutto il corpo e una sensazione dilagante di calore (sensazioni che erano già state riferite nell’antica letteratura sull’ipnotismo animale). In queste due particolari sensazioni l’Autore identificò delle modificazioni tipiche e costanti che caratterizzavano lo stato ipnotico: esse divennero quindi l’asse portante del suo metodo andando a caratterizzare i primi due esercizi, quelli fondamentali, del training autogeno.

Dal punto di vista fisiologico infatti, la fenomenologia della “deconnessione” riconosce nella sensazione di pesantezza l’espressione di una distensione muscolare e nella percezione di calore la conseguenza di una iperemia da distensione vasale. Possiamo considerare queste due modificazioni del vissuto corporeo come l’espressione stessa della distensione, laddove la distensione non rappresenta soltanto qualcosa che agisce sul sistema muscolare, ma determina anche globali modificazioni esistenziali sul sistema nervoso, sia per quanto riguarda lo schema corporeo che in merito al vissuto emotivo.

Ben presto Schultz scoprì come l’allenamento sistematico alla distensione (il training) permettesse al processo distensivo di generalizzarsi in direzione di una deconnessione globale che funge a sua volta da contesto e premessa (come avviene nello stato ipnotico o nelle fasi che precedono il sonno) per la comparsa di una predominanza della vita riflessa, degli automatismi e delle trasformazioni del vissuto interiore.

In seguito alla scoperta di Schultz, la strada percorsa dal training autogeno e dall’autoipnosi giunse a un bivio: da un lato la via tracciata da quei ricercatori (soprattutto di matrice psicoanalitica) che enfatizzano la diversità tra il concetto di “autogenia” (in cui i fenomeni si generano da sé) in contrapposizione a quello di autoipnosi (in cui questi vengono “attivamente” indotti); dall’altro la via tracciata da quei ricercatori che trascendono quella che – anche a nostro avviso – risulta essere una contrapposizione sterile in quanto riguarda più il metodo che la sostanza. E questo anche e soprattutto alla luce dei grandi cambiamenti che l'approccio naturalistico all'ipnosi clinica, dagli anni 70 in poi, ha comportato a partire dal metodo induttivo. Questo infatti non è più direttivo come in passato ma caratterizzato da un linguaggio analogico e indiretto che mira quindi non tanto al raggiungimento di un risultato (come può essere il vissuto di pesantezza o di calore), ma a creare le premesse perché questo possa emergere spontaneamente, in modo "autogeno".

In virtù di ciò, chi segue il primo approccio generalmente si astiene dal guidare l’esperienza lasciando letteralmente soli i praticanti nel seguire delle istruzioni precedentemente impartite; chi segue il secondo approccio, invece, guida i praticanti durante la prima esperienza di ciascun esercizio facilitando l’emergere dei diversi fenomeni, ne condivide l’esperienza e, sulla base di ciò, successivamente istruisce e supervisiona l’allenamento che ciascuno porta avanti autonomamente tra un incontro e l’altro.

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